In contrapposizione al vertice, l’appuntamento del Festival-incontro “Questa terra è la nostra terra” promosso da un ricco cartello di associazioni di base espressione delle tante esperienze per la sovranità alimentare, contro gli OGM, per la qualità dell’ambiente e del cibo, per la difesa, l’uso sostenibile e la democrazia delle risorse naturali, può rappresentare l’occasione per far pesare teorie e pratiche improntate ad un rapporto diverso con la terra, l’ambiente e le risorse.
La questione agricola è un nodo fondamentale delle politiche ambientali, sociali ed economiche di questo pianeta, tanto più oggi a fronte della crisi profonda del sistema globale. Una questione cardine perché tocca la sostenibilità e l’uso delle risorse vitali per l’esistenza, perché riguarda i conflitti militari che attorno al controllo delle risorse si generano – pensiamo all’acqua e alle fonti energetiche – perché riguarda ciò che mangiamo e la possibilità o meno di costruire attraverso la sovranità alimentare, le tecniche di produzione e il sistema di consumo consapevole, un diverso sistema di vita, di relazioni, di produzioni, consumi e sviluppo.
Il nodo della ricerca applicata alle produzioni agricole è, in questo contesto, fondamentale. Qui, rispetto alla critica alle finalità e agli obiettivi della ricerca ufficiale e nella costruzione di obiettivi e finalità completamente ribaltati rispetto all’attuale sistema della ricerca, si gioca, ad esempio, molta parte della battaglia contro gli OGM e la loro diffusione, l’alternativa alla produzione chimica delle sementi, dei mangimi, dei pesticidi, il no ai sistemi intensivi di sfruttamento dei suoli e degli allevamenti. Spostare l’asse della ricerca verso le tecniche naturali, la salvaguardia delle specie vegetali autoctone e il loro ripopolamento, la valorizzazione dei suoli, preservandone la ricchezza e la rigenerazione ciclica ecc. diventa un obiettivo fondamentale per poter immettere cambiamenti sistemici sostanziali. Per dare contenuto e sostanza alle rivendicazioni di sovranità alimentare, di democrazie delle risorse naturali, di consumo critico e consapevole.
La crisi globale non lascerà nulla come prima ma proprio questa certezza può dare forza ad un cambiamento profondo del sistema stesso, partendo da questi nodi legati alla terra, alla produzione agricola, alle risorse naturali, ad un diverso rapporto, un tempo si diceva sostenibile, con terra, ambiente e risorse.
Nella società civile, sia nel nord che nel sud del mondo, pur con modalità e caratteristiche diverse, si sono sviluppare molte esperienze che vanno in questo senso e che tra loro possono dialettizzarsi, fare massa critica, per dimostrare che “un altro mondo è possibile”. Lo sviluppo dei GAS, la creazione di cicli corti di produzione e vendita, la riconversione di molte aziende agricole e di allevamento/trasformazione verso tecniche più naturali, biologiche e non, la nascita di reti solidali ed etiche di produzione e vendita, esperienze in piccola scala di trasformazione energetica dei prodotti vegetali, il diffondersi del circuito di slow food e la sempre maggiore valorizzazione dei prodotti tipici, l’attenzione sempre più forte rivolta non solo dai singoli produttori agricoli ma, anche, dalle organizzazioni di categoria verso queste realtà e opportunità, sono il corpo su cui può far leva la critica nei nostri territori al sistema globalizzato di sfruttamento dei suoli e delle risorse, quello che guarda al rilancio agricolo come semplice volano di ripresa di un sistema, oggi in profonda crisi, senza criticarne gli assunti.
La stessa faccia di questa critica sono le esperienze “campesine” nel sud del mondo, le produzioni che arrivano a noi attraverso il circuito del commercio equosolidale, le esperienze frutto del microcredito e della solidarietà internazionale, i tanti conflitti locali per la difesa delle risorse naturali.
Questo insieme di esperienze possono/devono trovare proprio in appuntamenti come questo del Festival-Incontro “Questa terra è la nostra terra”, di critica dal basso ai vertici internazionali e, allo stesso tempo, di confronto tra realtà operanti nei territori, obiettivi comuni, luoghi e strumenti per far pesare la ricchezza diffusa insita in queste, tante, esperienze. Per incidere contro le scelte devastanti di sfruttamento delle risorse, di piegamento della natura alla logiche del profitto e del mercato e per contrapporre proposte concrete, realtà operanti di segno diametralmente opposto. L’occasione del contro vertice di Treviso può essere una tappa importante di questo percorso. Anche un’occasione per un confronto tra chi, pur operando in un orizzonte comune, poco ha sinora comunicato insieme.
Un’occasione per partire da noi, adesso, da questo territorio, il Veneto con una critica serrata alle politiche agricole, alle mistificazioni messe in campo in questo ultimo periodo, ad esempio, dal nuovo Ministro dell’agricoltura, che si richiama al ciclo corto di produzione e vendita, alla risoluzione della questione quote latte, all’attenzione al rapporto produzione agricola e territorio ma che, nel concreto, agisce favorendo lobby, solidificando clientele (in particolare elettorali come nel recente caso del decreto quote latte), senza uno straccio di azione concreta – anzi in molti casi contrastando – in favore di una diversa economia agricola e zootecnica.
Un comportamento mistificatore e ambiguo che trova piena realizzazione anche nella scelta nucleare sposata dal Governo Berlusconi e subito ripresa e rilanciata dal Presidente del Veneto Galan con la disponibilità di questa regione per siti deputati alla nascita di centrali nucleari. Scelta che inciderà complessivamente sul futuro del nostro Paese così come nelle politiche agricole, nel rapporto tra territorio e beni comuni, risorse naturali e produzione alimentare così come segnerà in negativo la dipendenza dei territori ad una economia dettata dalla produzione nucleare. E che, quindi, rappresenta per quanti si accingono a partecipare all’appuntamento del contro vertice un ulteriore nodo fondamentale da sciogliere, una scelta netta di contrasto a questa ipotesi che si affianca a quanto sinora detto.
La scelta nucleare nel nostro Paese, dove 20 milioni di cittadini nel 1987 votarono per chiudere le centrali e uscire dalla dipendenza da questa fonte di energia, viene oggi spacciata come la risposta migliore al global warming e, allo stesso tempo, alla dipendenza energetica da fonti non presenti nel nostro territorio. Per ottenere questo obiettivo il Governo pensa ad un piano di nuove centrali nucleari di terza generazione – di fatto con la stessa vecchia tecnologia di quelle alle quali il nostro Paese disse no alla fine degli anni ’80, con gli stessi problemi di efficienza e gli stessi rischi sulla sicurezza – che si continuano a costruire (sempre meno e sempre in meno Paesi) solo in alcuni stati europei anche oggi.
Tutto questo nonostante i dati delle agenzie internazionali indichino come costosa, rischiosa e inadeguata la scelta nucleare come risposta energetica del prossimo futuro; nonostante sia chiara la tendenza, sia negli Stati Uniti come in Europa, verso altre fonti energetiche, in particolare quelle da energia rinnovabile, solare ed eolica in primo luogo. L’AIEA, Agenzia internazionale per l’energia atomica, partendo dalla constatazione degli ingenti costi e della scarsa competitività dell’energia nucleare rispetto alle altre fonti energetiche, ne prevede una riduzione del peso nella produzione elettrica dei prossimi anni a livello mondiale, al punto di indicare nel rapporto pubblicato nel 2007 un calo nei prossimi decenni dal 15% del 2006 a circa il 13% del 2030. Declino dovuto ai costi eccessivi: negli Stati Uniti dove i produttori di energia elettrica sono privati, infatti, non si costruisce una centrale nucleare dalla fine degli anni ’70 e dove la gara per nuove centrali, indetta dall’ex presidente Bush, è andata deserta fino a quando l’amministrazione non ha introdotto, come per la produzione eolica, un incentivo di 1,8 centesimi di dollaro a chilowattora.
Nell’Unione Europea la situazione è analoga, con una tendenza all’uscita dal nucleare, salvo alcune situazione, come ad esempio la Finlandia, che presentano però problemi simili a quelli verificatisi negli Stati Uniti: un ritardo di 2 anni nella costruzione della centrale voluta dal governo finlandese con extracosti per 1,5 miliardi di euro e con la Siemens, fornitrice della tecnologia, che nel 2008 ha perso in Borsa un terzo del suo valore. Anche dal punto di vista capitalistico, quindi, a fronte del procedere della liberalizzazione del mercato energetico, proprio questa scelta pesa in negativo sulla decantata rinascita del nucleare.
In pratica il basso costo del kWt da nucleare verrebbe garantito esclusivamente dall’intervento dello Stato e dal considerare – con scelta politica – “esterni” i costi per lo smaltimento definitivo delle scorie e lo smantellamento delle centrali. A fronte di queste problematiche l’Italia per rilanciare il nucleare come pezzo consistente della produzione energetica nazionale dovrebbe costruire da zero tutta la filiera con investimenti altissimi: 10 centrali nucleari almeno per un totale di 10 – 15.000 MW di potenza installata e tra i 30 e 50 miliardi di euro di investimenti, per lo più pubblici, e poi impianti di produzione del combustibile, del deposito per lo smantellamento delle scorie. Il tutto, ottimisticamente, in funzione solo nel 2020.
Senza contare che il problema delle scorie rimane uno dei nodi irrisolti, pericolosi per l’ambiente e le popolazioni: le circa 250.000 tonnellate di rifiuti altamente radioattivi prodotte sino ad oggi nel mondo sono ancora in attesa di essere conferite in siti di smaltimento definitivo. L’Italia conta secondo l’inventario dell’APAT circa 25.000 mila mc di rifiuti, 250 tonnellate di combustibile irraggiato – pari al 99% della radioattività presente nel nostro territorio – a cui vanno sommati circa 1500 m3 di rifiuti prodotti annualmente dal ricerca, medicina e industria e circa 80-90.000 m3 di rifiuti derivanti dallo smantellamento delle 4 centrali e degli impianti del ciclo del combustibile: una montagna di rifiuti che, sempre il Governo Berlusconi, cercò di stoccare a Scanzano in Basilicata, stoppato dalla mobilitazione popolare. Così come un problema rimane l’approvvigionamento di uranio i cui costi di estrazione sono altissimi per una disponibilità prevista solo per altri 40-50 anni.
Pur dovendo partire, quindi, da zero, con investimenti mastodontici in un contesto di crisi finanziaria ed economica di proporzioni sinora mai viste nel nuovo sistema della globalizzazione, il nostro Governo, di concerto con i due monopolisti nazionali, Enel e Edison, ben disposti al “gioco” con i soldi pubblici, vuole imporre questa scelta anche attraverso provvedimenti da legislazione speciale, simili per filosofia decisionista al varo della Legge Obiettivo. Quella di uno scenario nucleare affidato e voluto dai grandi gruppi elettrici per incamerare altri profitti a rischio di investimento ridotto ma capace anche di fermare un modello alternativo di generazione distribuita più efficiente e incentrata sulle rinnovabili, con la nascita di centinaia di nuove piccole e medie aziende. Una “rivoluzione dal basso” potremmo dire che, in Germania e Spagna, che da tempo hanno imboccato questa strada a discapito del nucleare, ha prodotto anche centinaia di migliaia di posti di lavoro. Ma che lede interessi e sistemi di potere e controllo. Il ritardo rispetto agli obblighi presi a Kyoto nel 1997 e nei successivi vertici ambientali non può essere certo colmato da questa opzione che è, invece, tutta interna alla riproposizione di un modello di controllo e di profitto del sistema oggi in crisi globale finanziaria ed economica.
La battaglia per la difesa delle risorse naturali, dei beni comuni, per un modello diverso di produzione e consumo alimentare ma, anche, di relazioni e legami sociali tra comunità che rappresenta la critica concreta e praticabile al modello di politiche agricole della globalizzazione neoliberista sino ad oggi dominante, si lega necessariamente, quindi, con la battaglia contro il nucleare e quel modello di produzione energetica improntato sui monopoli sulle fonti energetiche fossili (petrolio e gas) e di produzione, costituito da grandi impianti energivori, grandi reti di distribuzione, mistificazione sulle fonti rinnovabili come il ciclo dell’incenerimento e produzione di calore ed energia dai rifiuti o quello, recente, della produzione di energia da impianti su grandi dimensioni e grandi scale di rifornimento da biomasse vegetali.
Per rivolgersi, in alternativa a questa prospettiva, alle fonti rinnovabili da energia pulita, con reti diffuse e distribuite sul territorio, promuovendo esperienze sostenibili di recupero e riuso dei materiali con rendimenti anche energetici: un contesto che rappresenta sia una opzione di mercato a cui si rivolgono gli esecutivi nazionali più attenti ma, soprattutto, le comunità locali, le esperienze e reti di base ed altro ancora che rappresentano la ricchezza per uno scardinamento possibile dell’attuale modello a favore di un nuovo sistema di relazioni, di economia e di sviluppo.
Nell’appuntamento del Festival-Incontro “Questa terra è la nostra terra” proviamo a discutere di queste possibilità, di come metterle in relazione, di come dare forza alla ricchezza potenziale di queste esperienze.
Ma anche come costruire un movimento di opposizione alla scelta nucleare e alle politiche di sfruttamento delle risorse naturali, di impoverimento dei suoli, di industrializzazione dei gusti e degli alimenti. Azioni concrete, iniziative forti, attraverso anche campagne di opinione, consultazioni e referendum, ad esempio, dove necessario.
La questione agricola è un nodo fondamentale delle politiche ambientali, sociali ed economiche di questo pianeta, tanto più oggi a fronte della crisi profonda del sistema globale. Una questione cardine perché tocca la sostenibilità e l’uso delle risorse vitali per l’esistenza, perché riguarda i conflitti militari che attorno al controllo delle risorse si generano – pensiamo all’acqua e alle fonti energetiche – perché riguarda ciò che mangiamo e la possibilità o meno di costruire attraverso la sovranità alimentare, le tecniche di produzione e il sistema di consumo consapevole, un diverso sistema di vita, di relazioni, di produzioni, consumi e sviluppo.
Il nodo della ricerca applicata alle produzioni agricole è, in questo contesto, fondamentale. Qui, rispetto alla critica alle finalità e agli obiettivi della ricerca ufficiale e nella costruzione di obiettivi e finalità completamente ribaltati rispetto all’attuale sistema della ricerca, si gioca, ad esempio, molta parte della battaglia contro gli OGM e la loro diffusione, l’alternativa alla produzione chimica delle sementi, dei mangimi, dei pesticidi, il no ai sistemi intensivi di sfruttamento dei suoli e degli allevamenti. Spostare l’asse della ricerca verso le tecniche naturali, la salvaguardia delle specie vegetali autoctone e il loro ripopolamento, la valorizzazione dei suoli, preservandone la ricchezza e la rigenerazione ciclica ecc. diventa un obiettivo fondamentale per poter immettere cambiamenti sistemici sostanziali. Per dare contenuto e sostanza alle rivendicazioni di sovranità alimentare, di democrazie delle risorse naturali, di consumo critico e consapevole.
La crisi globale non lascerà nulla come prima ma proprio questa certezza può dare forza ad un cambiamento profondo del sistema stesso, partendo da questi nodi legati alla terra, alla produzione agricola, alle risorse naturali, ad un diverso rapporto, un tempo si diceva sostenibile, con terra, ambiente e risorse.
Nella società civile, sia nel nord che nel sud del mondo, pur con modalità e caratteristiche diverse, si sono sviluppare molte esperienze che vanno in questo senso e che tra loro possono dialettizzarsi, fare massa critica, per dimostrare che “un altro mondo è possibile”. Lo sviluppo dei GAS, la creazione di cicli corti di produzione e vendita, la riconversione di molte aziende agricole e di allevamento/trasformazione verso tecniche più naturali, biologiche e non, la nascita di reti solidali ed etiche di produzione e vendita, esperienze in piccola scala di trasformazione energetica dei prodotti vegetali, il diffondersi del circuito di slow food e la sempre maggiore valorizzazione dei prodotti tipici, l’attenzione sempre più forte rivolta non solo dai singoli produttori agricoli ma, anche, dalle organizzazioni di categoria verso queste realtà e opportunità, sono il corpo su cui può far leva la critica nei nostri territori al sistema globalizzato di sfruttamento dei suoli e delle risorse, quello che guarda al rilancio agricolo come semplice volano di ripresa di un sistema, oggi in profonda crisi, senza criticarne gli assunti.
La stessa faccia di questa critica sono le esperienze “campesine” nel sud del mondo, le produzioni che arrivano a noi attraverso il circuito del commercio equosolidale, le esperienze frutto del microcredito e della solidarietà internazionale, i tanti conflitti locali per la difesa delle risorse naturali.
Questo insieme di esperienze possono/devono trovare proprio in appuntamenti come questo del Festival-Incontro “Questa terra è la nostra terra”, di critica dal basso ai vertici internazionali e, allo stesso tempo, di confronto tra realtà operanti nei territori, obiettivi comuni, luoghi e strumenti per far pesare la ricchezza diffusa insita in queste, tante, esperienze. Per incidere contro le scelte devastanti di sfruttamento delle risorse, di piegamento della natura alla logiche del profitto e del mercato e per contrapporre proposte concrete, realtà operanti di segno diametralmente opposto. L’occasione del contro vertice di Treviso può essere una tappa importante di questo percorso. Anche un’occasione per un confronto tra chi, pur operando in un orizzonte comune, poco ha sinora comunicato insieme.
Un’occasione per partire da noi, adesso, da questo territorio, il Veneto con una critica serrata alle politiche agricole, alle mistificazioni messe in campo in questo ultimo periodo, ad esempio, dal nuovo Ministro dell’agricoltura, che si richiama al ciclo corto di produzione e vendita, alla risoluzione della questione quote latte, all’attenzione al rapporto produzione agricola e territorio ma che, nel concreto, agisce favorendo lobby, solidificando clientele (in particolare elettorali come nel recente caso del decreto quote latte), senza uno straccio di azione concreta – anzi in molti casi contrastando – in favore di una diversa economia agricola e zootecnica.
Un comportamento mistificatore e ambiguo che trova piena realizzazione anche nella scelta nucleare sposata dal Governo Berlusconi e subito ripresa e rilanciata dal Presidente del Veneto Galan con la disponibilità di questa regione per siti deputati alla nascita di centrali nucleari. Scelta che inciderà complessivamente sul futuro del nostro Paese così come nelle politiche agricole, nel rapporto tra territorio e beni comuni, risorse naturali e produzione alimentare così come segnerà in negativo la dipendenza dei territori ad una economia dettata dalla produzione nucleare. E che, quindi, rappresenta per quanti si accingono a partecipare all’appuntamento del contro vertice un ulteriore nodo fondamentale da sciogliere, una scelta netta di contrasto a questa ipotesi che si affianca a quanto sinora detto.
La scelta nucleare nel nostro Paese, dove 20 milioni di cittadini nel 1987 votarono per chiudere le centrali e uscire dalla dipendenza da questa fonte di energia, viene oggi spacciata come la risposta migliore al global warming e, allo stesso tempo, alla dipendenza energetica da fonti non presenti nel nostro territorio. Per ottenere questo obiettivo il Governo pensa ad un piano di nuove centrali nucleari di terza generazione – di fatto con la stessa vecchia tecnologia di quelle alle quali il nostro Paese disse no alla fine degli anni ’80, con gli stessi problemi di efficienza e gli stessi rischi sulla sicurezza – che si continuano a costruire (sempre meno e sempre in meno Paesi) solo in alcuni stati europei anche oggi.
Tutto questo nonostante i dati delle agenzie internazionali indichino come costosa, rischiosa e inadeguata la scelta nucleare come risposta energetica del prossimo futuro; nonostante sia chiara la tendenza, sia negli Stati Uniti come in Europa, verso altre fonti energetiche, in particolare quelle da energia rinnovabile, solare ed eolica in primo luogo. L’AIEA, Agenzia internazionale per l’energia atomica, partendo dalla constatazione degli ingenti costi e della scarsa competitività dell’energia nucleare rispetto alle altre fonti energetiche, ne prevede una riduzione del peso nella produzione elettrica dei prossimi anni a livello mondiale, al punto di indicare nel rapporto pubblicato nel 2007 un calo nei prossimi decenni dal 15% del 2006 a circa il 13% del 2030. Declino dovuto ai costi eccessivi: negli Stati Uniti dove i produttori di energia elettrica sono privati, infatti, non si costruisce una centrale nucleare dalla fine degli anni ’70 e dove la gara per nuove centrali, indetta dall’ex presidente Bush, è andata deserta fino a quando l’amministrazione non ha introdotto, come per la produzione eolica, un incentivo di 1,8 centesimi di dollaro a chilowattora.
Nell’Unione Europea la situazione è analoga, con una tendenza all’uscita dal nucleare, salvo alcune situazione, come ad esempio la Finlandia, che presentano però problemi simili a quelli verificatisi negli Stati Uniti: un ritardo di 2 anni nella costruzione della centrale voluta dal governo finlandese con extracosti per 1,5 miliardi di euro e con la Siemens, fornitrice della tecnologia, che nel 2008 ha perso in Borsa un terzo del suo valore. Anche dal punto di vista capitalistico, quindi, a fronte del procedere della liberalizzazione del mercato energetico, proprio questa scelta pesa in negativo sulla decantata rinascita del nucleare.
In pratica il basso costo del kWt da nucleare verrebbe garantito esclusivamente dall’intervento dello Stato e dal considerare – con scelta politica – “esterni” i costi per lo smaltimento definitivo delle scorie e lo smantellamento delle centrali. A fronte di queste problematiche l’Italia per rilanciare il nucleare come pezzo consistente della produzione energetica nazionale dovrebbe costruire da zero tutta la filiera con investimenti altissimi: 10 centrali nucleari almeno per un totale di 10 – 15.000 MW di potenza installata e tra i 30 e 50 miliardi di euro di investimenti, per lo più pubblici, e poi impianti di produzione del combustibile, del deposito per lo smantellamento delle scorie. Il tutto, ottimisticamente, in funzione solo nel 2020.
Senza contare che il problema delle scorie rimane uno dei nodi irrisolti, pericolosi per l’ambiente e le popolazioni: le circa 250.000 tonnellate di rifiuti altamente radioattivi prodotte sino ad oggi nel mondo sono ancora in attesa di essere conferite in siti di smaltimento definitivo. L’Italia conta secondo l’inventario dell’APAT circa 25.000 mila mc di rifiuti, 250 tonnellate di combustibile irraggiato – pari al 99% della radioattività presente nel nostro territorio – a cui vanno sommati circa 1500 m3 di rifiuti prodotti annualmente dal ricerca, medicina e industria e circa 80-90.000 m3 di rifiuti derivanti dallo smantellamento delle 4 centrali e degli impianti del ciclo del combustibile: una montagna di rifiuti che, sempre il Governo Berlusconi, cercò di stoccare a Scanzano in Basilicata, stoppato dalla mobilitazione popolare. Così come un problema rimane l’approvvigionamento di uranio i cui costi di estrazione sono altissimi per una disponibilità prevista solo per altri 40-50 anni.
Pur dovendo partire, quindi, da zero, con investimenti mastodontici in un contesto di crisi finanziaria ed economica di proporzioni sinora mai viste nel nuovo sistema della globalizzazione, il nostro Governo, di concerto con i due monopolisti nazionali, Enel e Edison, ben disposti al “gioco” con i soldi pubblici, vuole imporre questa scelta anche attraverso provvedimenti da legislazione speciale, simili per filosofia decisionista al varo della Legge Obiettivo. Quella di uno scenario nucleare affidato e voluto dai grandi gruppi elettrici per incamerare altri profitti a rischio di investimento ridotto ma capace anche di fermare un modello alternativo di generazione distribuita più efficiente e incentrata sulle rinnovabili, con la nascita di centinaia di nuove piccole e medie aziende. Una “rivoluzione dal basso” potremmo dire che, in Germania e Spagna, che da tempo hanno imboccato questa strada a discapito del nucleare, ha prodotto anche centinaia di migliaia di posti di lavoro. Ma che lede interessi e sistemi di potere e controllo. Il ritardo rispetto agli obblighi presi a Kyoto nel 1997 e nei successivi vertici ambientali non può essere certo colmato da questa opzione che è, invece, tutta interna alla riproposizione di un modello di controllo e di profitto del sistema oggi in crisi globale finanziaria ed economica.
La battaglia per la difesa delle risorse naturali, dei beni comuni, per un modello diverso di produzione e consumo alimentare ma, anche, di relazioni e legami sociali tra comunità che rappresenta la critica concreta e praticabile al modello di politiche agricole della globalizzazione neoliberista sino ad oggi dominante, si lega necessariamente, quindi, con la battaglia contro il nucleare e quel modello di produzione energetica improntato sui monopoli sulle fonti energetiche fossili (petrolio e gas) e di produzione, costituito da grandi impianti energivori, grandi reti di distribuzione, mistificazione sulle fonti rinnovabili come il ciclo dell’incenerimento e produzione di calore ed energia dai rifiuti o quello, recente, della produzione di energia da impianti su grandi dimensioni e grandi scale di rifornimento da biomasse vegetali.
Per rivolgersi, in alternativa a questa prospettiva, alle fonti rinnovabili da energia pulita, con reti diffuse e distribuite sul territorio, promuovendo esperienze sostenibili di recupero e riuso dei materiali con rendimenti anche energetici: un contesto che rappresenta sia una opzione di mercato a cui si rivolgono gli esecutivi nazionali più attenti ma, soprattutto, le comunità locali, le esperienze e reti di base ed altro ancora che rappresentano la ricchezza per uno scardinamento possibile dell’attuale modello a favore di un nuovo sistema di relazioni, di economia e di sviluppo.
Nell’appuntamento del Festival-Incontro “Questa terra è la nostra terra” proviamo a discutere di queste possibilità, di come metterle in relazione, di come dare forza alla ricchezza potenziale di queste esperienze.
Ma anche come costruire un movimento di opposizione alla scelta nucleare e alle politiche di sfruttamento delle risorse naturali, di impoverimento dei suoli, di industrializzazione dei gusti e degli alimenti. Azioni concrete, iniziative forti, attraverso anche campagne di opinione, consultazioni e referendum, ad esempio, dove necessario.
Vedi anche:
Lo speciale sul Festival/Incontro "Questa terra è la nostra terra"
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