Proponiamo due ulteriori interventi sulla questione pesticidi dopo le analisi effettuate dal Comitato per il Diritto alla Salute in Val di Non.
Il Trentino è la provincia con il più alto impiego di pesticidi per ettaro di terreno coltivato. Un triste primato dovuto alla presenza di colture «specializzate» quali i vigneti, ma, soprattutto, i meleti intensivi.
Purtroppo da molti anni non si va al di là della «lotta integrata» una dizione ipocrita per nascondere un impiego massiccio di prodotti «fitosanitari». Un impiego che non accenna a ridursi.
Il mercato globale e le esigenze di stoccaggio e logistica richiedono varietà di mele suscettibili alle malattie crittogamiche e ai parassiti.
Il risultato è che le mele sono il prodotto ortofrutticolo più contaminato. L’ultima indagine di Legambiente («Pesticidi nel piatto») segnalava tra l’altro che proprio in Trentino sono in vendita le mele più contaminate (su 22 campioni di mele nove erano fuorilegge a causa del superamento dei limiti massimi consentiti del fungicida Boscalid).
Ovviamente se sono contaminate le mele figuriamoci l’ambiente. L’esposizione ai pesticidi riguarda in primo luogo gli addetti (gli stessi melicoltori) e poi coloro che hanno la sfortuna di abitare vicino ai meleti. In Val di Non sono tanti perché il business mele (proiettato ai mercati emergenti della Russia) continua a tirare e si sono piantati meleti ovunque, eliminando i prati, arrampicandosi sui versanti, piantando a ridosso degli abitati.
Le piaghe della monocoltura in Val di Non sono ben evidenti ma buona parte dell’economia locale gira intorno al settore e, sino a pochi anni fa, nessuno osava contestarla.
Oggi, invece, la petizione promossa dal «Comitato per il diritto alla salute», finalizzata a tutelare meglio la popolazione dall’impatto della melicoltura intensiva e chimica è stata sottoscritta da quasi mille abitanti.
Il Comitato per il diritto alla salute aveva riscontrato presenza di residui di pesticidi in abitazioni private e giardini.
Di fronte a questi elementi gli esperti ufficiali hanno contestato la carenza della metodologia di raccolta dei campioni.
Nonostante i vari tentativi di minimizzare i dati del Comitato e, in generale, il problema dell’esposizione ai pesticidi, l’attenzione e la preoccupazione sono rimaste elevate e, alla fine del 2008, l’Azienda sanitaria provinciale si accinse ad attivare un monitoraggio sull’esposizione della popolazione.
I rilievi avanzati dal Comitato circa i limiti dell’indagine non vennero tenuti in considerazione e il Comitato stesso decise di procedere ad una indagine indipendente. Anche nei campioni analizzati
dall’Azienda sanitaria il livello di clorpirifos-etil nelle urine raddoppiava tra il periodo precedente e quello successivo ai trattamenti nei meleti segno che l’esposizione - poca o tanta - c’è e che un po’ di avvelenamento gli abitanti lo subiscono. Fatto sta che il Comitato, ritenendo limitata e insufficiente l’indagine «ufficiale», ha proceduto ad autotassarsi per far eseguire analisi più complete ad un laboratorio fuori del Trentino.
Sono stati campionati anche i bambini oltre agli adulti e sono stati ricercati (e trovati) più principi attivi. Il confronto è stato possibile solo per il clorpirifos-etil per il quale sono stati riscontrati valori quattro volte più elevati (sei nei bambini) rispetto alle analisi «ufficiali» dell’Azienda sanitaria. Dati preoccupanti ma che non fanno che confermare un quadro conosciuto. Anche le indagini dell’Azienda hanno individuato la presenza di prodotti fitosanitari nelle abitazioni e nei giardini pubblici e privati.
Secondo il Comitato la presenza dei pesticidi nelle abitazioni private si configurerebbe come una violazione dell’articolo 674 del Codice Penale (Getto pericoloso di cose). Ma per gli «esperti» i livelli di contaminazione sono «tossicologicamente irrilevanti» e quindi non c’è «molestia». Da questo punto di vista appaiono quanto mai pertinenti le osservazioni del sociologo Ulrich Beck, teorico della «società del rischio», che a proposito dei livelli «ammissibili» di contaminazione, ha osservato che:
«Abbiamo a che fare con l’etica biologica di risulta della civiltà industriale avanzata, un’etica che rimane caratterizzata da una sua peculiare negatività. Essa esprime il principio, un tempo del tutto ovvio, di non avvelenare il prossimo. Per essere più precisi si dovrebbe dire: il principio di non avvelenare completamente. Infatti essa, per ironia della sorte, consente proprio quel famoso
e controverso "un po’". [...] In questo senso i valori massimi non sono altro che linee di ritirata di una civiltà intenta a rifornirsi in abbondanza di sostanze inquinanti e tossiche. L’esigenza di per sé ovvia di non essere avvelenati viene respinta come utopistica. Nello stesso tempo, con i valori massimi consentiti quel «po’» di avvelenamento diventa normalità, scompare dietro essi. (U. Beck. La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci).
Beck sostiene che nella «società del rischio» l’onere della prova di un effetto di causale sulla salute è a carico delle vittime della contaminazione (lo si è visto anche in tanti casi di nocività
aziendale). La «scienza» si trincera dietro alle statistiche epidemiologiche, ai test sulle cavie di laboratorio, ai «valori di sicurezza » con il risultato che c’è un avvelenamento ammissibile, normale, che quindi è come se non ci fosse. Per non «guastare le feste» all’industria chimica e a chi utilizza i suoi prodotti. La consapevolezza dei cittadini rispetto ai rischi è però cresciuta e le rassicurazioni non bastano più considerata la tendenza alla sottovalutazione del «rischio» da partedegli esperti e delle agenzie ufficiali.
Pertanto di fronte ai risultati delle nuove analisi il Comitato chiede con forza che vengano fatte rispettare le ordinanze dei comuni a rispetto delle abitazioni private e che si inizi a dare veramente un taglio all’uso di sostanze nocive e inquinanti nei meleti.
Michele Corti, ruralista e docente di Sistemi Zootecnici e pastorali montani presso l’Università degli Studi di Milano
L’imbroglio dei pesticidi. Il Trentino deve cambiare
Dopo le analisi effettuate dal Comitato per salute della val di Non che dimostrano la presenza di pesticidi nelle urine dei residenti, c’è da chiedersi se la cosiddetta lotta integrata possa avere una qualche validità o sia solo un espediente per far arrivare ai nostri agricoltori i soldi della comunità europea. La lotta integrata dovrebbe ridurre notevolmente i livelli di pesticidi salvaguardando le proprietà vicine e la salute collettiva. In realtà così non è, evidentemente qualche trappola per la confusione sessuale non ha dimostrato di ridurre significativamente l’impiego dei «veleni».
L’ultima indagine di Legambiente sui pesticidi per il Trentino riporta dati catastrofici. Su 22 mele analizzate solo un campione è privo di pesticidi e addirittura 9 sopra i limiti di legge. A sentire i consorzi dei produttori solo il 1-3% delle analisi risulta positiva. In realtà i dati di Legambiente dimostrano che il Trentino è fra i più grandi utilizzatori di pesticidi per ettaro.
Come si conciliano i dati di Legambiente con i dati dei consorzi? Semplicemente i consorzi quando riportano i loro dati non si riferiscono a campione cioè a mela, ma portano le percentuali di positività rispetto al numero di analisi effettuate.
Su ogni mela si effettuano 100 analisi circa di pesticidi: ebbene se ne trovo 1 pesticida per mela posso comunque dire che solo l’1% delle analisi era positiva. Se trovo 3 pesticidi per ogni mela analizzata, posso sempre dire che solo il 3% delle analisi è risultato positivo.
Con imbrogli di questo tipo il Trentino sta disattendendo le sollecitazioni della comunità europea di ridurre l’impiego di pesticidi e questo a scapito della salute della propria gente. La comunità europea ha stanziato 53 miliardi di euro per le misure agroalimentari e di benessere animale. Questo denaro dovrebbe andare alla conversione a una agricoltura biologica con ritorni ambientali e di salute e non al mero sostegno del reddito di chi pratica la cosiddetta lotta integrata«alla trentina».
La politica trentina deve venire a capo di questo problema.
Col contributo dei consorzi produttori si devono mettere in campo risorse ed energia per una conversione decisa verso il biologico vero. Ci sono bellissimi esempi da seguire di valli alpine che si sono vocate al biologico con ripercussioni positive sulla salute. Per contro la triste monocultura sta producendo malattie nervose (per mancanza di spazi di relazioni) oltre che organiche dovute ai pesticidi.
Roberto Cappelletti è medico e Sindaco di Centa San Nicolò
20.1.10
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